Perdonare? Ma come faccio? In testa mi gira la frase di Primo Levi:
“si muore per un sì e per un no!”. Mi sento in colpa perché sono
sopravvissuta! Mi guardo in giro e vedo solo morte e sofferenza.
Qualcuno mi chiede aiuto: “ti prego, dammi un po’ acqua!”. Mi faccio
coraggio, mi alzo e inizio ad aiutare. Mi guardo intorno e mi rendo
conto del numero dei morti e della quantità di sangue che scorre; mi
gira la testa e mi devo sedere.
No, non può essere vero! Invece sì, sto vivendo un incubo… reale.
Quelle ore passate nel parcheggio dell’ultimo piano del Centro
Commerciale Westgate, a Nairobi, sono state le più drammatiche della mia
vita. Forse, in altri post, riuscirò a scrivere di più su come ho
trascorso quei momenti.
Adesso, mi preme raccontare come, alla fine, sia riuscita a scegliere
la strada del perdono, un lungo percorso con alti e bassi, ma che alla
fine porta alla pace interiore: ne sono convinta.
Forse, non posso dire d’aver raggiunto la pace interiore, ma sicuramente posso dire di essere in pace.
L’odio e il risentimento sono pesanti da portare sulle spalle e io ho
una missione più grande: vivere. Gustare la vita nella sua dolcezza e
nella sua amarezza. Accettare, perdonare e andare avanti. Non voglio
trasmettere odio e sentimenti di vendetta alle generazioni future:
voglio insegnare alle mie figlie il perdono e il rispetto per la vita e
la dignità umana.
Ho scelto di parlare del mio dolore pubblicamente, anche perché noi
Somali tendiamo sovente a non parlare di queste cose. “È destino, doveva
andare così! “Vai avanti e sii forte”, ti ripetono. Sono forte e vado
avanti, ma penso che raccontare la propria sofferenza e, soprattutto,
che cosa questa esperienza dolorosa mi ha insegnato, sia un grosso
dovere, oltre che un segno di coraggio.
Non mi lamento, ma voglio condividere, compartecipare.
Penso che condividere il proprio dolore, cosa che accomuna molti
somali, possa essere una strada importante per riconciliazione. Sì,
perché noi somali, anche se non vogliamo riconoscerlo, conserviamo
purtroppo tutti profonde sofferenze in comune: in questi anni, ciascuno
di noi ha visto morire i propri cari e la guerra ci ha lasciato ferite
fisiche ed emotive difficili da rimarginare.
È il momento di condividere, parlare e perdonarsi. Spezziamo la
catena della vendetta e del risentimento, di cui siamo stati, per troppi
anni, prigionieri. È il momento di cominciare a camminare insieme verso
la liberazione più profonda, quella dell’anima.
Mariam Yassin